In questo film Mel Gibson e il suo staff hanno curato attentamente la ricostruzione storiografica del contesto culturale dei Maya. Quello che Ci interessa capire, da questa ricostruzione, è come venissero usati il tatuaggo e le altre decorazioni del corpo dalle tribu. Anche qui, come nelle culture polinesiane il Guerriero si tatuava per diversi motivi: per distinguersi socialmente, per intimorire l’avversario nel momento dello scontro, sia come amuleto e, attraverso il dolore, come sacrificio agli dei in cambio di protezione nel campo di battaglia. Le donne invece lo usavano a scopo decorativo. Anche all’interno delle tribu dei Maya, il tatuaggio sembra essere praticato sopratutto dal ceto al potere, mentre alle persone comuni era vietato.
La tesi del film è annunciata da una frase dello storico-scrittore Will Durant: una grande civiltà non viene conquistata fino a quando non si distrugge da sola dal di dentro. Così, quando nel 1518, gli spagnoli “conquistadores” sbarcarono per la prima volta su una spiaggia dello Yucatàn, per portare la nuova civiltà, i Maya avevano già compiuto buona parte del lavoro ed erano, diciamo così, predisposti. Gibson, creativo in modo allarmante, e anche furbo, corregge dunque la tesi del paradiso naturalistico: in quel tempo l’Europa aveva il Rinascimento, i codici civili e la polvere da sparo, i Maya “indietro” millenni rispetto a quei parametri, e al riparo da quel tipo di civiltà, non erano poi così felici. Un’idea scaltra e magari strumentale, comunque accettabile, che poi permette al regista di fare il cinema violento-etnico-primordiale-iperrealista, attraverso “interpretazioni impossibili”, che tanto gli sono congeniali.
Recensione My Movies